IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
    Visti  gli atti del pp. 37160/1992 r.g. g.i.p. (n. 44937/1992 r.g.
 p.m.);
                             O S S E R V A
    D'ufficio si solleva l'eccezione di illegittimita'  costituzionale
 dell'art.  81 cpv. c.p. per contrasto con gli artt. 3, primo comma, e
 27, secondo comma, ult. parte della Costituzione nei sensi di cui  in
 motivazione.
    Premesso  in  fatto che il p.m. presso la procura circondariale di
 Roma ha emesso decreto di citazione nei confronti di Trippa  Mauro  e
 Trippa Mario perche' imputati dei seguenti reati:
       a)  della  contravvenzione p. e p. dagli artt. 110 del c.p., 20
 lett. C) della legge n. 47 del 1985  per  avere  eseguito  lavori  di
 costruzione   di  un  manufatto  in  muratura  e  cemento  armato  di
 complessivi mq. 260 x m. 7,50 h  al  colmo  con  tetto  ricoperto  di
 tegole, in concorso tra di loro, in zona vincolata ex lege 431/1985 e
 d.m. 438/1987 senza la prescritta concessione.
    In  Fiumicino-Roma il 16 gennaio 1992, 26 febbraio 1992, 23 giugno
 1992 e successivamente;
       b) della contravvenzione p. e p. dagli artt. 1, 2, 13  legge  5
 novembre  1971,  n.  1086 per avere eseguito un'opera in conglomerato
 cementizio armato senza il progetto esecutivo e la  direzione  di  un
 tecnico qualificato (opera di cui al capo a);
      c)  della  contravvenzione  p. e p. dagli artt. 1, 4, 14 legge 5
 novembre 1971, n. 1086 per avere omesso di denunciare la predetta op-
 era dal suo inizio al competente ufficio del genio civile.
    In Fiumicino, il 16 gennaio 1992;
       d) del reato p. e p. dagli artt. 110 e 349 del c.p. per  avere,
 in  concorso  tra  di loro e con piu' azioni esecutive di un medesimo
 disegno criminoso, violato i sigilli apposti all'atto  del  sequestro
 dei quali erano stati nominati custodi giudiziari.
    In Fiumicino, il 26 febbraio 1992 e 23 giugno 1992;
       e)  del reato p. e p. dagli artt. 110 del c.p. 1-sexies legge 8
 agosto 1985, n. 431 per avere eseguito, in zona sottoposta a  vincolo
 opere  di  cui  al capo a), in concorso tra loro, senza la prescritta
 autorizzazione.
    In Fiumicino, il 16 gennaio 1992;
       f) del reato p. e p. dagli artt. 110, 734 del c.p.  per  avere,
 in  attuazione  della  condotta  di  cui  sopra, distrutte o comunque
 alterate  bellezze  naturali  di  luoghi   soggetti   alla   speciale
 protezione dell'autorita', in concorso tra loro.
    In Fiumicino, il 16 gennaio 1992.
    Gli  imputati hanno presentato il 1½ ottobre 1992, con il consenso
 del p.m., la richiesta di "applicazione della pena a norma  dell'art.
 444  del  c.p.p.  subordinatamente  alla  concessione  dei benefici",
 determinando cosi' testualmente la pena:
    "Partendo dal reato piu' grave di violazione dei sigilli  ex  art.
 349, secondo comma c.p. con l'applicazione delle attenuanti generiche
 dichiarate  equivalenti  alle  aggravanti  si applichera' l'art. 349,
 primo comma con la pena di mesi 13 di reclusione e  L.  1.100.000  di
 multa  piu'  due  mesi  di  reclusione  e  L. 100.000 di multa per la
 continuazione si perverra' alla pena di mesi 15 e L.  1.200.000  meno
 1/3  per  l'art. 444 del c.p.p. la pena e' quantificata in mesi 10 di
 reclusione e L. 800.000 di multa".
    All'udienza fissata per la trattazione gli imputati sono comparsi:
 Trippa Mauro ha ammesso i fatti; ha dichiarato che era conoscenza che
 la  zona  e'  sottoposta  a  vincolo  e ha confermato la richiesta di
 applicazione di pena; Trippa Mario si e' riportato alle dichiarazioni
 del fratello; il difensore ha chiesto applicarsi la pena concordata.
    Si osserva in diritto che il giudicante ritiene  di  sollevare  di
 ufficio la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 81 cpv.
 del c.p. per le ragioni e nei limiti appresso indicati.
    Prima   di  sottolineare  le  ragioni  che  rendono  rilevante  la
 questione, e' necessario chiarire i termini del problema.
    I) L'art. 81 cpv. c.p. e' stato oggetto  di  reiterati  interventi
 della  Corte di cassazione a sezioni unite penali nonche' della Corte
 costituzionale;  quanto  alla  prima:  sez.  un.  23  ottobre   1976,
 Desideri,  in  foro  it.,  1977,  II,  105; sez. un. 22 ottobre 1977,
 Zavatti, in Riv. it. dir. e proc. pen.,  1978,  1099;  sez.  un.,  30
 aprile 1983, Anaclerio, in foro it. rep. 1984, voce reato continuato,
 n. 9; da ultimo, sez. un. 26 maggio 1984, Falato in Cass. pen., 1984,
 p.  2150;  quanto  alla  seconda: sentenza 18 gennaio 1977, n. 34, in
 foro it., 1977, I, 776; ordinanza 8 giugno 1981, n.  99,  ivi,  rep.,
 voce  reato  continuato,  n.  58;  10  maggio  1978, n. 54 e, infine,
 senteza 17 marzo 1988, n. 312, in foro it., 1989, p. 1773.
    Prescindendo   dalla   ricostruzione   analitica   dell'evoluzione
 giurisprudenziale  relativa all'art. 81 cpv. del c.p. dopo la riforma
 del  1974,  e'  sufficiente  porre  in  rilievo   che,   secondo   la
 giurisprudenza   ormai   consolidata  in  sede  di  legittimita',  e'
 ammissibile la continuazione tra delitti e  contravvenzioni.  In  tal
 senso si e' espressa la Corte di cassazione a sezioni unite penali 26
 maggio  1984,  Falato,  sopra  citata.  Tale  orientamento  e'  stato
 confermato con sentenza interpretativa di rigetto n. 312 del 17 marzo
 1988 di codesta Corte costituzionale (sopra indicata). Codesta Corte,
 mutando  radicalmente  l'orientamento  precedente,  ha  enunciato  il
 principio  secondo  cui non v'e' piu' alcuna ragione per escludere la
 continuazione tra reati puniti con  pene  eterogenee,  non  essendovi
 violazione  del  principio di legalita', in quanto pena legale non e'
 soltanto quella comminata dalle singole fattispecie penali, ma  anche
 quella   risultante   dall'applicazione   delle   varie  disposizioni
 incidenti sul  trattamento  sanzionatorio,  compresa  quella  di  cui
 all'art. 81 cpv. del c.p.
    Si  osserva  che,  partendo  da  quest'ultima considerazione, deve
 considerarsi una disposizione incidente sul trattamento sanzionatorio
 anche quella prevista dall'art. 163 del c.p.
    Per chiarire i termini del problema e  giungere  al  fulcro  della
 questione  che oggi si sottopone all'esame della Corte, si rileva che
 l'art. 20, lett. C) della legge n. 47  del  1985  e  l'art.  1-sexies
 della  legge  n. 431/1985 prevedono la medesima sanzione dell'arresto
 fino a due anni e dell'ammenda da 30  a  100  milioni  di  lire.  Per
 entrambi  i  reati la pena pecuniaria non consente la concessione del
 beneficio  della  sospensione  condizionale  della  pena,  anche   in
 concorso di attenuanti generiche. L'art. 349, secondo comma, del c.p.
 prevede  la  pena della reclusione da tre a cinque anni e della multa
 da lire seicentomila a sei milioni per colui  che  violi  i  sigilli.
 Anche  in  tal  caso  non  e' consentita la concessione del beneficio
 previsto dall'art. 163 c.p. salvo che non  ricorrano  attenuanti;  in
 quest'ultimo  caso, infatti, la pena applicabile e' da sei mesi a tre
 anni di reclusione e la multa da L. 200.000 a L.  2.000.000;  invero,
 secondo  l'orientamento  consolidato,  il  capoverso dell'art. 349 e'
 considerato una circostanza aggravante e non un reato  autonomo;  con
 la  conseguenza  che,  concedendo  le  attenuanti generiche, ritenute
 equivalenti all'aggravante, e' applicabile la pena prevista dal primo
 comma  dell'art.  349  del  c.p.  che  consente  la  concessione  del
 beneficio della sospensione.
    Occorre  aggiungere  che  e'  pacifico  in  giurisprudenza che tra
 delitti e contravvenzioni debba essere considerato piu' grave in ogni
 caso il delitto, anche  se  punito  con  pena  meno  grave.  Da  cio'
 discende    che,    ritenuta   la   continuazione   tra   delitti   e
 contravvenzioni, la pena base vada determinata sempre in relazione al
 delitto; se cosi' non  fosse,  oggi  il  problema  di  illegittimita'
 costituzionale  non  si  porrebbe - o, almeno, non nei termini di cui
 ora si dira'  -  perche'  le  parti  avrebbero  concordato  una  pena
 partendo  dalla  pena  edittale  prevista  per le contravvenzioni, in
 concreto piu' gravi quantomeno sotto  il  profilo  delle  conseguenze
 previste   dal  legislatore  con  riferimento  all'impossibilita'  di
 concedere il beneficio della sospensione.
    Da quanto sopra detto  discendono  per  conseguenze  che  appaiono
 inique  sul  piano della parita' di trattamento e in contrasto con il
 fine rieducativo della pena.
    II) Sotto il primo profilo si osserva che  colui  il  quale  violi
 l'art.  20,  lett.  C)  (e/o  l'art.  1-sexies, legge n. 431/1985) e,
 subi'to il sequestro, rispetti il vincolo  impostogli  dall'autorita'
 giudiziaria,   andra'   incontro   ad   una   condanna   che   dovra'
 necessariamente scontare; colui che, invece,  fin  dall'inizio  abbia
 deciso  di  commettere la contravvenzione e di violare i sigilli gia'
 prevedendo, sia pur con dolo eventuale, che  questi  vengano  apposti
 alle opere, potra' godere del beneficio della sospensione della pena.
 Vi  e' una evidente disparita' di trattamento e colui che ha commesso
 la sola contravvenzione non potra' non  avvertire  come  ingiusta  la
 condanna che lo vede punito sostanzialmente in modo piu' grave di chi
 abbia agito con maggiore intensita' del dolo.
    Deve addirittura sottolinearsi che il solo contravventore potrebbe
 avere  agito anche per mera colpa - sia pure in concreto inescusabile
 - mentre colui che ha commesso anche il delitto ha  agito  certamente
 con  dolo  anche  nel  momento in cui ha commesso la contravvenzione,
 proprio perche' ha agito in esecuzione di un  disegno  criminoso:  il
 primo  pero'  dovra'  espiare  la  pena, il secondo potra' godere del
 beneficio della sospensione.  Non  sembra  valido  osservare  che  e'
 facolta'  del  giudice  non  concedere nel secondo caso il beneficio,
 perche' cio' non risolve il problema della disparita' di trattamento:
 infatti il giudice ben puo' ritenere, nel momento in  cui  emette  la
 sentenza,  che  il soggetto che ha violato i sigilli abbia intenzione
 di non violare piu' le leggi, e quindi non puo'  certamente  negargli
 il beneficio.
    III)   Si   puo'   obiettare   che   la   proposta   eccezione  di
 incostituzionalita' non e' aderente al principio del favor rei se  la
 si considera solo con riguardo agli odierni imputati.
    Ma a tale obiezione si contrappongono due considerazioni.
     A)   Innanzitutto  non  e'  possibile  sollevare  l'eccezione  di
 costituzionalita'  sotto  profili  diversi,   cioe'   di   illiceita'
 dell'art.  20,  lett.  C) della legge n. 47/1985 o dell'art. 1-sexies
 della legge n. 431/1985 al fine di consentire al mero  contravventore
 la  concessione  del  beneficio della sospensione, per porlo su di un
 piano di parita' di trattamento con  colui  che  risponda  anche  del
 delitto;  invero  codesta  Corte  ha  gia'  rigettato tale eccezione,
 rilevando che non appare irrazionale la pena  edittale  prevista  dal
 legislatore  per  reati  che  riguardano  l'ambiente  e la tutela del
 territorio.
     B) Inoltre occorre soffermarsi sul principio del  favor  rei.  Si
 tratta  si  un  principio  insito  nel  sistema  penale  e  che trova
 attuazione in alcune norme  penali,  tra  cui,  ad  esempio,  proprio
 l'art.  81  del c.p. Bisogna pero' verificare se tale principio possa
 prevalere sulla norma costituzionale che sancisce  l'uguaglianza  dei
 cittadini davanti alla legge. Puo' cioe' il legislatore, per favorire
 il  singolo  imputato,  creare situazioni di oggettiva disugualianza?
 Puo' il legislatore, nel disciplinare la determinazione  della  pena,
 prevedere  che  ad una condotta caratterizzata da maggiore intensita'
 del dolo corrisponda una pena piu'  mite  rispetto  ad  una  identica
 condotta  caratterizzata  da un'intensita' del dolo minore, senza che
 sia vulnerato non solo il principio  costituzionale  dell'uguaglianza
 di  tutti  i cittadini davanti alla legge, ma anche di quello sancito
 dal secondo comma dell'art. 27 della  Costituzione,  secondo  cui  la
 pena  deve tendere alla rieducazione del condannato e tale e' solo la
 pena  che  sia  oggettivamente  giusta  e  che  sia  frutto  di  pari
 trattamento?
    Il  discorso investe la legittimita' dello stesso art. 81 cpv. del
 c.p., almeno nella parte applicabile al caso oggi in esame.
    Colui che viola diverse disposizioni di legge sara' punito in base
 al cumulo materiale delle pene; colui che avra' commesso gli identici
 reati, ma in esecuzione di un medesimo disegno  criminoso,  avra'  un
 trattamento  piu' favorevole, potendo avvalersi della disposizione di
 cui al secondo comma dell'art. 81 del c.p.;  eppure  quest'ultimo  ha
 compiuto  il  fatto  certamente  con maggiore intensita' del dolo: il
 primo, invero,  ha  commesso  i  fatti  in  virtu'  di  singoli  atti
 volitivi;  il  secondo,  invece,  ha  analizzato  preventivamente  la
 portata della propria condotta; ha  esaminato  tutte  le  conseguenze
 alle quali andra' incontro; ha stabilito un disegno criminoso in base
 al  quale  agire,  e  che  lo portera' a commettere piu' reati; avra'
 addirittura previsto che  l'esecuzione  del  progetto  criminoso  gli
 procurera'  dei  vantaggi;  nel caso in esame, avra' previsto perfino
 che la commissione del delitto di violazione di sigilli  subito  dopo
 la  consumazione  delle  contravvenzioni gli consentira' di avvalersi
 del beneficio della sospensione; in conclusione costui agira' con una
 condotta  materiale  identica,  ma  caratterizzata  da  un   elemento
 psicologico  di  maggiore  intensita'  del  dolo e quindi di maggiore
 antisocialita'.
    Il contrasto e' ancora piu' stridente se si  considera  che  colui
 che   ha  violato  le  diverse  disposizioni  di  legge  senza  avere
 premeditato la commissione dei  reati,  potrebbe  avere  commesso  la
 contravvenzione  per  mera  colpa,  sia  pure  inescusabile, ed avere
 deciso in un secondo momento  di  commettere  il  delitto  doloso  di
 violazione  di sigilli; colui, invece, che agisce in esecuzione di un
 medesimo disegno criminoso, commette sia la  contravvenzione  che  il
 delitto in virtu' di un comportamento fin dall'inizio necessariamente
 doloso.  In  tali  casi la pena irrogata ai rei sarebbe ingiustamente
 differenziata, perche' l'uno, che ha agito con minore intensita'  del
 dolo,  subirebbe  una  pena  piu'  grave  sia per entita' sia per gli
 effetti, cioe' per la necessita' di doverla espiare; l'altro, invece,
 godrebbe di un trattamento piu' favorevole. In  cio'  si  ravvisa  un
 contrato  con il principio di uguaglianza stabilito dall'art. 3 della
 Costituzione.
    IV) Inoltre e' ravvisabile il  contrasto  della  norma  penale  in
 esame con l'art. 27 della Costituzione, perche' l'effetto rieducativo
 della  pena  va  visto sia in astratto che in concreto. Affinche' sia
 rieducativa, occorre che  la  pena  comminata  per  i  vari  reati  e
 applicabile  in  base  ai meccanismi previsti dal codice, sia tale da
 non consentire o addirittura consigliare di  commettere  piu'  reati;
 occorre  inoltre  che  il  soggetto  che la subisca non la senta come
 obiettivamente ingiusta, perche' frutto di disparita' di trattamento.
 Tizio, che ha agito senza preordinazione dei vari reati, condannato a
 pena piu' grave di Caio, che ha agito nelle medesime circostanze,  ma
 in  esecuzione di un programma criminoso, non potra' non sentire come
 ingiusta la pena che e'  costretto  ad  espiare,  pensando  che  Caio
 invece  sta  godendo  della liberta' e comunque ha subito una condann
 piu' mite; e la pena inflittagli, anziche' avere effetto rieducativo,
 sara' cagione di insaprimento e di maggiore propensione a "delinquere
 con piu' oculatezza", sfruttando meglio i meccanismi  premiali  della
 legge.  Caio,  per  converso,  a  conoscenza dei meccanismi premiali,
 programmera' la propria condotta, non sentendo la pena irrogata  come
 remora  dal  delinquere,  ma  anzi  essendo  consapevole e confidando
 nell'applicazione di norme che lo favoriranno concretamente.
    Merita qualche ulteriore considerazione l'esame dell'art. 27 della
 Costituzione.
    Quest'ultimo sancisce, nella seconda parte del secondo comma,  che
 le pene devono tendere alla rieducazione del condannato.
    Occorre  soffermarsi  sul  senso  di  tale disposizione. Una prima
 interpretazione possibile e' che la norma si riferisca alla pena gia'
 inflitta e al modo  in  cui  essa  debba  essere  scontata.  Ma  tale
 interpretazione  appare  riduttiva.  In  effetti sembra piu' aderente
 agli intendimenti del costituente  ritenere  che  tale  principio  si
 riferisca  anche  alla  comminatoria  della pena e alla sua efficacia
 come remora dal delinquere nonche' come adeguatezza al caso concreto.
 In altri termini  l'effetto  rieducativo  della  pena  non  va  visto
 soltanto  alla  luce delle modalita' con le quali questa debba essere
 espiata: di cio' infatti si occupa la prima parte del  secondo  comma
 dell'art.  27,  laddove afferma che le pene non possono consistere in
 trattamenti contrari al senso di umanita'. L'effetto  rieducativo  va
 individuato  anche  nell'adeguatezza  della pena prevista ed irrogata
 dalla norma rispetto al fatto  concreto;  quest'ultimo  consiste  sia
 nell'elemento  oggettivo  che  in  quello  psicologico.  Pertanto  il
 sistema normativo dev'essere tale, nel suo complesso, da far  si  che
 il  reo,  e  non  solo  il condannato, sappia che la propria condotta
 trovera' sanzione adeguata e proporzionata e non vi sia una  condotta
 dolosa  che  gli  possa  procurare un trattamento piu' favorevole. In
 sostanza, cio' che si intende dire e'  che  lo  stato  attuale  della
 normativa  e' tale che colui il quale costruisce abusivamente in zona
 vincolata, prima ancora di iniziare l'azione  criminosa,  sa  che  se
 commette  la  sola  contravvenzione  non  potra' godere del beneficio
 della   sospensione;  se  invece  commettera'  anche  il  delitto  di
 violazione dei sigilli, potra' godere di una pena  piu'  mite  e  del
 beneficio della sospenione. Percio' nella normativa attuale vi e' una
 implicita  sollecitazione  ad una progressione criminosa. Con cio' la
 pena non assume piu' una funzione di remora  dal  delinquere  ne'  un
 effetto rieducativo.
    Non  sembra  possa  obiettarsi  che la pena va considerata solo in
 senso  tecnico  giuridico,  cioe'  con  riferimento  alle  sole  pene
 principali  ed  accessorie  previste  dal  titolo  II del libro I del
 codice  penale.  Anche  le  conseguenze  strettamente  connesse  alla
 condanna,  quali  quelle  indicate  dall'art.  163  del  c.p., sembra
 debbano rientrare nel concetto  di  pena,  almeno  sotto  il  profilo
 costituzionale, perche' si tratta di disposizione che comunque incide
 sul  trattamento  sanzionatorio  e  in particolar modo sulla liberta'
 dell'individuo ed ha funzione espressamente rieducativa.
    V) L'eccezione e' rilevante sotto un duplice aspetto:
      1) perche' la richiesta delle parti e' nella sostanza corretta e
 andrebbe accolta;
      2) perche' il p.m. e gl'imputati hanno determinato la pena  base
 per  il  delitto  non  nel  minimo  edittale, in considerazione della
 gravita' del  fatto;  se  la  normativa  consentisse  al  giudice  di
 determinare  in concreto quale sia il reato piu' grave tra il delitto
 e la contravvenzione, il p.m. e l'imputato  avrebbero  concordato  la
 pena  base  per  la  contravvenzione  partendo  da  limiti  parimenti
 superiori al minimo edittale; sicche', anche concedendo le attenuanti
 e applicando la diminuente prevista ex art. 444 del c.p.p.,  la  pena
 inflitta   in   concreto  sarebbe  stata  tale,  tenuto  conto  della
 continuazione tra i reati, da superare i  limiti  previsti  dall'art.
 163  del c.p.p., sicche' questo giudice avrebbe accolto la domanda di
 applicazione  di  pena,  ma  secondo  una  ben  diversa  formulazione
 effettuata dalle parti.
      3)  perche'  il  p.m.  e  gli imputati hanno determinato la pena
 avvalendosi coerentemente della disposizione dell'art.  81  cpv.  del
 c.p., secondo comma, ultima parte, della cui legittimita' si dubita.
    In  effetti  tra  tutte  le  contravvenzioni  contestate  vi e' un
 concorso formale, essendo state  violate  con  unica  azione  diverse
 disposizioni  di  legge;  ma  tra  le contravvenzioni e i delitti, in
 particolare quello previsto dall'art. 349  c.p.,  posto  dalle  parti
 come reato piu' grave, e' ravvisabile la continuazione, cosi' come e'
 ravvisabile  la continuazione tra i delitti di cui ai capi D) ed F) e
 tra le due distinte violazioni di sigilli di cui al capo D).
    Mentre il concorso formale non  pone  problemi  di  disparita'  di
 trattamento,  l'istituto  della continuazione, specie con riferimento
 al concorso tra delitti e contravvenzioni,  fa  sorgere  i  dubbi  di
 legittimita'   sopra   prospettati.   La  determinazione  della  pena
 formulata dalle parti, sia pure senza distinguere esplicitamente  tra
 reati  in concorso formale e continuazione tra questi e i delitti, e'
 sostanzialmente corretta perche' il principio dell'aumento della pena
 fino al triplo e' stato applicato; spettera' al  giudicante  indicare
 l'entita'  della pena per i reati concorrenti per l'ipotesi in cui le
 singole pene debbano riassumere la loro autonomia.
    VI)  Dalle  premesse  sopra  esposte  discende  la  necessita'  di
 formulare  le  richieste  da  porre  a  codesta  Corte. Qui sorgono i
 problemi maggiori: in effetti si tratta di far si' che dall'eventuale
 dichiarazione di incostituzionalita' derivi un sistema  armonico  che
 rispetti  i principi di pari trattamento dei cittadini senza incidere
 oltre misura sul sistema sanzionatorio penale.
    La dichiarazione di  illegittimita'  costituzionale  dell'istituto
 della  continuazione,  almeno  con riferimento alla seconda parte del
 capoverso dell'art. 81 del c.p., ricorrente nel caso  in  esame,  sia
 pur   modificando  in  modo  drastico  il  meccanismo  sanzionatorio,
 lascerebbe comunque  un'armonia  nel  sistema  sanzionatoria  penale,
 perche'   eviterebbe  disparita'  di  trattamento,  consentirebbe  al
 giudice un piu' limitato, ma anche un piu' chiaro e certo  ambito  di
 valutazione  e  di applicazione delle norme; sarebbe cioe' rispettata
 la certezza del diritto. La parziale illegittimita' della norma,  che
 per  dovere si prospetta in linea gradata, pur risolvendo il problema
 delle disparita' di trattamento e pur  rispettando  il  principio  di
 rieducazione  della  pena,  darebbe  adito  verosimilmente  a qualche
 difficolta'  di  applicazione  della  norma  e   ad   interpretazioni
 giurisprudenziali contrastanti.
    In  linea  principale si eccepisce l'illegittimita' costituzionale
 dell'art. 81, secondo comma, ultima parte in relazione al primo comma
 del medesimo articolo nella parte in cui prevede che colui  il  quale
 commette  piu' violazioni di diverse disposizioni di legge sia punito
 con la pena che dovrebbe infliggersi per  la  violazione  piu'  grave
 aumentata  fino al triplo, per contrasto con gli artt. 3, primo comma
 e 27, secondo comma, ultima parte, della Costituzione.
    In linea subordinata si eccepisce l'illegittimita'  costituzionale
 dell'art.  81,  secondo comma, del c.p. ultima parte, e dell'art. 81,
 primo comma, del c.p.  nella  parte  in  cui  non  prevedono  che  il
 giudice,   per   determinare  il  reato  piu'  grave  tra  delitti  e
 contravenzioni, debba tener conto della  pena  edittale  sancita  per
 tali  reati,  ivi  compresa  la  pena pecuniaria, in maniera tale che
 debba ritenere piu' grave il reato  (delitto  o  contravvenzione  che
 sia) per il quale sia prevista la pena piu' grave sia con riferimento
 alla  pena  detentiva  che  alla  pena  pecuniaria  o,  in ogni caso,
 allorche' la pena  da  infliggere,  anche  tenuto  conto  della  pena
 pecuniaria,   non   consenta   la  concessione  del  beneficio  della
 sospensione;